Trump rinomina il Golfo del Messico in Golfo d’America, non è un’azione eccentrica, dare un nome è un atto di potere, di ridefinizione psicologica. E comunicativa.

Napoleone fece costruire a Parigi, di fronte alla Scuola militare, il ponte che congiunge Trocadero alla Torre Eiffel, e lo chiamò “Pont d’Iéna”, per celebrare l’omonima battaglia del 1806 in cui inflisse una cocente sconfitta alla Prussia. Così cocente che otto anni dopo, quando il generale prussiano Blücher arrivò a Parigi per occuparla nella primavera del 1814, era deciso a far saltare in aria il ponte. La situazione stava precipitando e il destino del ponte sembrava segnato fino a che non intervenne Talleyrand, un nobile francese molto astuto, che suggerì di cambiare il nome ribattezzandolo “Pont de l’Ecole Militaire”.  Così d’un tratto non rappresentava più un simbolo e fu lasciato integro.

Questa tecnica oggi è definita reframing, in pratica la riformulazione della questione che è oggetto del problema come tecnica di soluzione dello stesso. Dall’esempio è evidente che nei nomi c’è un potere nascosto, quello di proiettare un’idea nella nostra mente. Instradare il nostro pensiero in un percorso implicito e inconsapevole che determina il nostro modo di vedere la realtà.

Sotto questa luce va letta l’azione di Donald Trump, che ha firmato un ordine esecutivo per rinominare il Golfo del Messico in “Golfo d’America” nelle comunicazioni ufficiali degli Stati Uniti. È stata considerata erroneamente dai più come un’azione eccentrica ed impulsiva, una provocazione. In realtà questa tecnica di comunicazione è un indicatore molto chiaro di un cambio di paradigma nella psicologia interna degli Stati Uniti e del rapporto sia verso i suoi avversari sia verso gli alleati storici.

La rubrica completa del nostro fondatore e CEO, Andrea Barchiesi, questo mese su Prima Comunicazione.

Paolo Marinoni

Communication Specialist di Reputation Manager S.p.A. Società Benefit.

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